GELSI, BACHI E TESSITURA IN VAL DI NON FRA OTTO E NOVECENTO. LA CONFERENZA DI VINCENZINA FORGIONE

[già su Ispirazioninfiera - Vite a regola d'arte]

Fra gli eventi maggiormente significativi organizzati nell'ambito di Feltrosa 2018 merita una menzione particolare l'incontro con Vincenzina Forgione presso l'Hotel Villanuova di Romeno, dove l'allegra brigata delle Feltrosiane ha preso parte alla cena di benvenuto di un'edizione che, fin da subito, si è rivelata molto ricca e molto partecipata.

La relazione della Signora Forgione è stata la sintesi, necessariamente molto breve, di uno studio approfondito su quella produzione agricola, diffusasi ampiamente in Val di Non fra XIX e XX secolo, che tanta parte aveva avuto nel sostentamento di molte famiglie locali e che aveva permesso lo sviluppo di una manifattura attiva fino alla Seconda Guerra Mondiale: la gelsibachicoltura.

Quelle ricerche, condotte assieme alla collega Graziella Ruatti, sono poi confluite in un'importantissima mostra - Sete, filande e cavalieri. E il gelso in Val di Non - ospitata nel 2012 a Casa Campia a Revò. 

Un'esposizione che purtroppo non ho avuto modo di visitare, ma che, leggendo qua e là, pare abbia avuto il merito di riportare alla memoria gli echi di un mondo contadino ormai scomparso, soppiantato un po' dappertutto, non solo in Val di Non, da altri tipi di coltivazioni e da altri metodi di lavoro.

Le due curatrici hanno individuato e fotografato i resti delle numerose filande operanti in valle; hanno intervistato i testimoni dell'allevamento domestico del baco da seta, ma anche gli addetti alle attività industriali ad esso collegate; hanno raccolto strumenti d'epoca e manufatti, così come bozzoli e semi, fotografie e documenti, tessuti e arredi originali.

Con passione e competenza, insomma, hanno permesso ai visitatori di conoscere, di ricordare, ma anche di riflettere sull'evoluzione dell'agricoltura, del territorio e della società nell'ultimo secolo e mezzo.

Pare quasi impossibile che la Val di Non - oggi conosciuta soprattutto per la coltivazione intensiva delle mele - fino a metà Ottocento quasi non conoscesse questo tipo di albero da frutto, relegato perlopiù nei cosiddetti broili, cioè i giardini recintati di alcune case signorili, dove la cura di queste piante costituiva semplicemente un passatempo per i ricchi padroni di quelle dimore.

A quei tempi il paesaggio rurale era totalmente diverso da oggi, molto più eterogeneo e sicuramente meno artificiale. Venivano coltivate la vite, la segale, il frumento, ma anche l'orzo e alcuni tipi di legumi; c'erano le patate e il granoturco, il formenton e alberi da frutto di diverso tipo (albicocco, noce, castagno, fico, ciliegio, pesco, pero), c'erano siepi di campo ed erbe officinali. Veniva lasciato anche spazio per l'allevamento del bestiame.

E poi c'erano i gelsi. 

I viaggiatori che giungevano in Trentino, non solo in Val di Non, li potevano ammirare un po' dappertutto, nei campi e nei prati, sui pendii e nel fondovalle, vicino ai corsi d'acqua. Erano spesso allineati in lunghi filari e potevano raggiungere anche i quindici metri di altezza.

Un paesaggio molto particolare, di cui oggi non rimane più traccia.

Il gelso, soprattutto il gelso bianco, che in Val di Non viene chiamato moràr, è una pianta originaria della Cina e pare sia arrivato in Trentino nel XVI secolo, trovando condizioni ideali in Vallagarina, diffondendosi successivamente anche in altre zone: in Val di Non appunto, a Javré, a San Lorenzo in Banale, nella zona di Ponte Arche, vicino a Ceola, ma anche in Val di Sole e sulle rive dell'Adige.

La gelsicoltura, finalizzata all'allevamento dei bachi da seta, si sviluppò in Val di Non all'inizio dell'800.

Cles, lat. Clesium, situato a mattina in un'amena, ma alquanto bassa pianura, capo luogo delle valli [...] Le contigue campagne sono fertili d'ogni sorta di granaglia di buona qualità, vi sono molti alberi, e gelsi... (1805, Jacopo Antonio Maffei, in Periodi istorici e topografia delle valli di Non e Sole nel Tirolo Meridionale).

Non resta ora a vedere che le ville della parrocchia di Vigo, ... ed i còlti di esse, ne' quali il gelso e la vite prosperano a meraviglia. (1829, Gioseffo Pinamonti, in La Naunia descritta al viaggiatore).

Attorno alla metà del secolo era praticata soprattutto nella bassa e media Valle, nel Mezzalone e sulla Terza sponda.

Nel Giornale agrario dei distretti trentini e roveretani del 25 agosto 1846, Agostino Perini, studioso di botanica e agronomo, scrisse: Ho più imparato in Revò per un'ora di passeggio che per dieci anni di studio agronomico. Siamo nella valle di Non, all'ultimo confine della vegetazione dei gelsi, all'ultimo confine della vegetazione delle viti, terreno calcareo-argilloso ora dolcemente ora rapidamente inclinato: il sistema di coltivazione è stupendo e potrebbe servire di modello a tutta l'Europa.

La gelsibachicoltura, che coinvolgeva interi nuclei familiari - agli uomini era perlopiù affidata la coltivazione delle piante, alle donne l'allevamento dei bachi e la trattura della seta - è stata un'attività di grande importanza per la famiglie contadine della Val di Non, ma anche in generale di altre zone del Trentino, perché grazie ad essa si potevano arrotondare i guadagni derivati dai lavori agricoli, superare con più facilità i periodi di carestia e ridurre, di conseguenza, i fenomeni di emigrazione.

L'allevamento del gelso e la produzione della seta, dunque, hanno caratterizzato la storia economica di tutta l'Anaunia, gettando le basi di un'economia di mercato, che è stata anche terreno di sperimentazione per quanto riguarda la cooperazione, che tanta importanza ha nella storia trentina. La gelsibachicoltura, infatti, ha stimolato lo spirito di collaborazione sia all'interno delle famiglie sia nell'ambito comunitario, tanto che le prime forme cooperative sono legate proprio a questo tipo di attività.

L'ininterrotta, crescente popolarità durò fino alla metà dell'Ottocento, quando la produzione della seta in Trentino subì una battuta di arresto a causa di vari fattori, che vedremo in seguito, ma fino a quel momento la diffusione fu enorme. 

La casa contadina divenne un centro di produzione su base familiare e venne organizzata per soddisfare le esigenze di un'attività artigianale che coinvolgeva tutti, grandi e piccini. Le vecchie abitazioni vennero trasformate e ampliate, assumendo la loro fisionomia tipica e visibile ancora oggi.

L'obiettivo principale di non compromettere la produzione veniva perseguito con una cura e un'attenzione continue, cercando però di preservare sempre l'equilibrio con la natura. Era un'attività totalizzante, che veniva gestita dalle famiglie in ogni suo aspetto.

Per allevare i bachi serviva uno spazio adeguato, che veniva accuratamente pulito, imbiancando le pareti con acqua di calce e lavando i graticci, gli attrezzi e i pavimenti con lisciva di soda o fascine di assenzio. I locali non dovevano essere troppo piccoli e dovevano tenere conto della notevole crescita dei bachi. Una larva di pochi millimetri nella prima età poteva raggiungere anche i nove centimetri nella quinta ed ultima età.

Era indispensabile, poi, poter riscaldare adeguatamente gli ambienti, quindi la famiglia contadina doveva disporre di legna a sufficienza. La temperatura dell'ambiente doveva salire progressivamente ad almeno venti/ventidue gradi. Per questo motivo i bachi erano spesso allevati direttamente in casa, in cucina o in camera da letto.

Infine bisognava garantire l'alimentazione corretta dei bachi, che era proporzionata alla quantità di seme prenotato. Per un'oncia di seme (circa ventisette grammi), corrispondente a circa cinquanta/sessantamila uova, servivano circa trenta sacchi da trenta chilogrammi di foglia integra. 

Già in partenza insomma questa attività richiedeva requisiti specifici e un lavoro continuo, attento e accurato, che impegnava tutti i membri della famiglia. Molte sono le testimonianze di persone anziane, che ricordano, spesso con nostalgia, la cura domestica dei bachi. Nel mio piccolo rammento ancora, con estrema tenerezza, i racconti della nonna di mio marito e i suoi occhi scintillanti nel renderci partecipi delle sue esperienze di bambina, comuni a molte sue coetanee.

Parecchie sono anche le fotografie, un po' sfocate e sbiadite dal tempo, che ci restituiscono i volti di uomini, donne e bambini coinvolti nelle varie fasi di questa straordinaria occupazione.

L'importanza della gelsibachicoltura per il sostentamento delle famiglie era tale che esistevano vere e proprie pratiche scaramantiche, che ai nostri occhi oggi appaiono decisamente ingenue, ma che miravano a migliorare il processo di crescita delle larve. Accanto alle arele, sorta di scaffali sui quali venivano posizionate, si mettevano fiori ed erbe aromatiche con la convinzione che il profumo ne favorisse lo sviluppo oppure si componevano filastrocche per stimolare i bachi a creare il bozzolo. L'accesso ai locali adibiti all'allevamento, poi, era vietato agli estranei, perché si credeva portasse male.

Non mancavano nemmeno esternazioni a carattere devozionale. A Cles, ad esempio, si usava offrire alla Madonna del convento francescano un ramo coperto di bozzoli quale ringraziamento.

L'enorme diffusione della gelsibachicoltura si spiega anche per la sue tempistiche perfettamente compatibili con i lavori dei campi. Era infatti un'attività che si interrompeva nella brutta stagione, consentendo ai contadini di dedicarsi, nella quiete invernale, a tutti quelle occupazioni impossibili nel resto dell'anno.

Il ciclo vitale del baco da seta - Bombyx mori secondo la classificazione di Linneo del 1758 - dura all'incirca una quarantina di giorni ed è un processo affascinante e molto complesso, ma che necessita dell'intervento umano, perché questo lepidottero, simile ad una grossa falena ed originario dell'Asia centro-orientale, da solo non sarebbe in grado di sopravvivere.

Furono due monaci dell'Ordine di San Basilio ad introdurre in Europa, dopo un lungo viaggio fino in Cina, la coltura dei bachi. Giunti davanti all'imperatore Giustiniano raccontarono di essere venuti a contatto con questo tipo di allevamento e di averlo assimilato. I loro insegnamenti divennero pian piano patrimonio comune del nostro continente.

Tutto iniziava in estate con l'accoppiamento della farfalla maschio con la farfalla femmina e con la morte di quest'ultima non appena deposte le uova.

Già in questa primissima fase l'azione dell'uomo risultava determinante, perché le uova del baco, minuscole quanto la capocchia di uno spillo e molto resistenti, simili ad un seme di papavero, venivano selezionate e raccolte per poi essere conservate in luoghi freschi ed asciutti fino alla primavera successiva, quando iniziava il periodo dell'incubazione (fine aprile - inizio maggio).

Era usanza - ha raccontato la Signora Forgione - confezionare sacchettini di tela ove introdurre le uova del baco, in modo che le donne, poi, li potessero infilare sotto gli abiti, al caldo, poggiandoli sul seno. Questa pratica non si interruppe mai, nemmeno quando si iniziò ad utilizzare le camere di incubazione.

Dopo circa quattordici giorni, alla schiusa delle uova, le piccole larve venivano raccolte e distribuite sulle arele, dove venivano nutrite, somministrando foglie di gelso tagliuzzate via via sempre più grandi e proporzionate alle dimensioni dei piccoli insetti. Proprio in primavera iniziavano ad essere disponibili le prime, tenere foglie. Si capisce, quindi, perché la bachicoltura e la gelsicoltura dovevano procedere di pari passo.

La lunga fase larvale era caratterizzata da momenti di vita attiva (le cinque età) e di riposo (le quattro dormite). 

Nella prima età i bachi mangiavano ogni due ore circa; successivamente i pasti si facevano meno frequenti fino ad arrivare all'ultima età quando subentrava una fase di grande appetito (furia). Per le donne preposte al loro nutrimento questo era certamente il momento più estenuante, perché i bachi dovevano essere alimentati dalle sei alle dieci volte al giorno, impedendo spesso alle poverine persino il riposo notturno.

Nel periodo delle mute, invece, l'alimentazione veniva del tutto sospesa e i bachi non potevano essere disturbati. Questi periodi di riposo segnavano il passaggio da un'età all'altra e la larva si liberava del tegumento rigido che avrebbe impedito loro di crescere. 

Se, al momento della muta, le larve riposavano beate, il lavoro per chi le accudiva diventava gravoso, perché era necessario cambiare in continuazione i letti in modo da eliminare i residui dell'alimentazione e gli escrementi, evitando così processi di fermentazione.

Alla fine della quinta età i bachi si preparavano per la salita al bosco, che veniva generalmente creato con rametti di erica o di altra pianta, in modo che il baco, posandosi sopra, potesse distendere il filo e iniziare la costruzione del bozzolo.

Dalla filiera posta a livello del labbro inferiore fuoriusciva una bava che, al contatto con l'aria, si solidificava, generando un unico lungo filo che poteva arrivare anche a più di un chilometro di lunghezza. Dopo tre giorni e oltre trecentomila movimenti del capo il bozzolo era terminato.

Il bozzolo di seta costituiva la protezione per la crisalide e il suo colore poteva variare, dal bianco al giallo all'arancio, a seconda del tipo di baco. In questo luogo protetto la crisalide iniziava ad assumere le caratteristiche morfologiche di un adulto.

A questo punto i bozzoli migliori, che dovevano avere un colore uniforme e un aspetto compatto, venivano selezionati e distaccati dal bosco e si procedeva con l'uccisione della crisalide, in modo da evitare la sua fuoriuscita dal bozzolo e la sua trasformazione in farfalla, strappando di conseguenza il lungo filo di seta, tanto faticosamente formatosi.

Come già detto la bachicoltura era un'attività tutta al femminile, che coinvolgeva donne di ogni età, comprese le bambine che, fin da piccole, erano rese partecipi delle varie fasi dell'allevamento. Le tecniche si tramandavano di madre in figlia ed erano parte integrante della dote con cui, a quei tempi, la ragazza arriva al matrimonio.

Anche la trattura della seta competeva alle donne e consisteva nel ricavare il filo di seta, dipanando i bozzoli del baco. 

Nel 1902 don Giovan Battista Panizza descrisse nel dettaglio questa procedura, specificando che per questa semplicità di processo nel filare i bozzoli, in ogni paesello dove si coltivavano, si vedeva in esercizio una qualche filandella, anzi si può dire che non vi era casa di contadino bachicultore nella quale non vi fosse una o due calderolle con tutti gli attrezzi necessari per la filatura dei bozzoli...

Dopo la sbozzolatura, cioè il distacco dei bozzoli dal bosco, e la stufatura, cioè l'uccisione delle crisalidi in forno (stufatura a secco) oppure utilizzando il vapore acqueo (stufatura a umido), cui si è fatto cenno sopra, si procedeva con la cernita dei bozzoli sani. Quelli mal riusciti venivano utilizzati in casa per recuperare la seta meno pregiata: i petoloti servivano per confezionare abbigliamento o coperte per uso proprio.

A Sarnonico, verso la fine dell'Ottocento, era stato aperto uno stabilimento specializzato proprio nella produzione di coperte di petoloti. Sono coperte che ancora oggi si trovano in molte case della Val di Non. Erano realizzate proprio con gli scarti della seta ed erano molto richieste. Nonostante il loro aspetto grezzo, infatti, erano molto calde.

La fase successiva della lavorazione del filato di seta era la spelaiatura, cioè la pulizia del bozzoli dalla peluria che li avvolgeva.

Durante la scopinatura i bozzoli venivano immersi in un pentolone generalmente di rame, la caldera, riempito di acqua calda. In questo modo veniva sciolto il glutine che teneva unite le bave. Con l'aiuto di uno scopino di trovavano i capi del filo.

Arrivava infine il momento della filatura, cioè l'avvolgimento del filo attorno all'aspo. Da un chilo di bozzoli si ottenevano tra i duecentocinquanta e i duecentottanta grammi di seta filata.

La trattura e la filatura rimasero attività a carattere domestico fino alla fine del XVIII secolo, quando sorsero i primi grandi stabilimenti per la lavorazione dei bozzoli, le filande, dove venivano impiegate non solo le donne, ma anche le bambine.

In Val di Non, come in tutto il Trentino, ne sorsero parecchie, la prima a Denno ad inizio '800. Solo a Cles, nel periodo compreso tra il 1825 e il 1850, risultavano in attività ben dieci filande, dove operavano più di cinquecento persone, che lavoravano in media ottantasei giornate all'anno, producendo seimilatrecento chili di seta ricavati da circa centoventunomila chili di bozzoli.

Durante la seconda metà dell'800 la produzione serica entrò in crisi. La concorrenza della seta proveniente dall'Asia, specie dopo l'apertura, nel 1869, del Canale di Suez; le guerre di indipendenza, che modificarono i rapporti commerciali con i paesi confinanti; la diffusione di alcune malattie dei bachi - la pebrina, il calcino, il giallume e la flaccidezza - che spesso si manifestavano in forma epidemica; tutti questi fattori compromisero gravemente l'industria bacologica.

Tra il 1856 e il 1857 comparve anche in Trentino la pebrina e le sue conseguenze furono subito nefaste. La situazione fu ulteriormente complicata, l'anno successivo, da un periodo molto difficile per l'agricoltura in generale: le viti furono colpite dalla crittogama e il maltempo distrusse i raccolti. Sulla spinta di questi tragici eventi fu creato nello stesso 1858 un comitato incaricato di studiare rimedi igienico-sanitari e individuare un seme sano per ripopolare le colture trentine.

Si distinse in questo contesto Don Giuseppe Grazioli. I suoi primi esperimenti sui bachi da seta avevano dati ottimi risultati tanto che nel 1857 fu premiato all'Esposizione Agraria di Trento. Il suo interesse per la bachicoltura era sostenuto anche da un forte atteggiamento filantropico visto che la coltivazione del gelso e la lavorazione dei bozzoli influenzavano notevolmente il tenore di vita della società contadina e preindustriale trentina. Per questi motivi, alla comparsa della pebrina, fu incaricato di selezionare un seme in grado di risollevare le sorti della bachicoltura regionale. 

Risale al 1858 il primo dei suoi undici viaggi di studio (in Dalmazia). Ne seguirono altri (Romania, Asia Minore, Turchia, Grecia, Macedonia, Caucaso, Georgia, Russia), ma dopo sei anni i risultati non furono ancora definitivi, tanto che nel 1864 scoppiò una protesta tra i contadini a causa del persistere di situazioni di contagio anche in allevamenti molto isolati.

La notizia che, al contrario, in Lombardia aveva avuto successo un impianto di un seme giapponese, convinse il Grazioli a spostarsi in Estremo Oriente, dove operò fra il 1864 e il 1868.

L'importazione del seme giapponese contribuì a far ripartire l'allevamento dei bachi e la produzione serica. Vale la pena ricordare che il semen bachi importato dal Giappone veniva confezionato in contenitori di cartone decorati con scritte augurali. 

La bachicoltura, quasi completamente ferma fino al 1869, dunque ripartì e il prodotto si mantenne anche qualitativamente elevato fino al 1914.

Per difendere e rilanciare la produzione della seta venne fondato a Trento l'Istituto Bacologico (1892), che venne inaugurato ufficialmente due anni dopo alla presenza dell'imperatore Francesco Giuseppe e che divenne ben presto uno dei centri più avanzati in Europa. L'istituto si occupava soprattutto della selezione delle uova, ma anche della formazione dei contadini e degli operai tramite l'istituzione di cattedre ambulanti.

La crisi definitiva, però, non tardò ad arrivare. L'inadeguatezza tecnologica dovuta agli scarsi investimenti produttivi e all'assenza di interventi pubblici, la necessità di mantenere alta la qualità di fronte alla concorrenza di altri centri di produzione dell'arco alpino, l'enorme concorrenza delle sete cinesi e giapponesi, l'introduzione attorno agli anni '20 del Novecento della seta artificiale - il rayon - diedero il colpo di grazia all'intero comparto.

Negli anni '40 la produzione di bozzoli in Trentino si aggirava ancora sui trecentomila chilogrammi e sul territorio erano ancora presenti circa diecimila famiglie di bachicoltori, dodici forni e cinque filande, ma dopo un'ulteriore battuta d'arresto, nella seconda metà del secolo l'industria serica trentina scomparve definitivamente.

Un discorso a perte merita sicuramente la Filanda Viesi di Cles che rimase in attività fino al 1986.

Fondata nel 1870 da Domenico Viesi, che nel 1849 aveva acquistato il negozio presso il quale faceva il garzone, intuendo le prospettive del mercato dei bozzoli, andò a soppiantare le quindici piccole imprese a conduzione familiare presenti in paese.

Il figlio Gerolamo, a capo dell'azienda dalla morte del padre (1892), gettò le basi per una nuova attività che iniziò nel 1893, cioè la tessitura della seta. L'opificio iniziò a produrre le stoffe per i paramenti sacri (damaschi, lampassi, broccati) inizialmente con normali telai, poi con i telai Jacquard. Venne anche creato un laboratorio di confezione, ricamo e riparazione dei paramenti.

Il periodo di maggiore attività della filanda durò fino al 1915, quando Gerolamo fu costretto a fuggire in Svizzera a causa del suo orientamento irredentista.

Alla fine della guerra l'attività riprese, ma i danni furono enormi e la concorrenza del rayon si fece sentire.

Con la morte di Gerolamo la vedova continuò il lavoro con il vecchio personale fino al 1936, quando l'azienda passò nelle mani del figlio Lorenzo, che divenne un grande esperto di tessuti e collezionista di pezzi antichi. La sua preziosa collezione, con pezzi provenienti da tutto il mondo, è ora proprietà della Provincia di Trento.

I filati prodotti dalla filanda Viesi erano molto pregiati ed erano ricavati grazie ad un procedimento molto particolare e rimasto segreto per tanto tempo. Nelle bacinelle veniva utilizzata acqua piovana, intrisa di cenere di legna. Si era infatti capito che l'acqua di Cles, troppo calcarea, poco si prestava a sciogliere bene la colla prodotta dal baco. Inoltre la copertura degli aspi permetteva di ottenere un filato più liscio, più omogeneo e più elastico.

In Italia, oggi, la bachicoltura è praticamente scomparsa. Poche sono le aziende che allevano i bachi. Sono piccole produzioni artigianali di nicchia o come esempio didattico. 

Degna di nota è, all'interno dell'Istituto Sperimentale per la Zoologia Agraria di Padova, la sezione specializzata per la bachicoltura. Fondata nel 1871 per decreto reale si occupa della ricerca e della sperimentazione sul Bombyx mori. 

Ringrazio Vincenzina Forgione per avermi inviato bellissime fotografie e preziose indicazioni bibliografiche.

Le foto storiche, che si ritrovano anche disseminate nel web, sono tratte dai seguenti volumi:
  • G. Bolle - F. Gvozdenović, Istruzione sulla coltivazione del gelso e sullo allevamento razionale del baco da seta, Paternolli, Gorizia, 1908
  • G. Dapor, Nobili filande del Trentino, Studio Dapor, Rovereto, 1982
  • Da Ala a Rovereto tra bachi e gelsi (a cura di E. Moggio), Istituto Comprensivo di Ala, 2007

Il racconto di Vincenzina Forgione è stato integrato con le numerosissime informazioni e curiosità presenti sui cartelloni sparsi per Cavareno.



Ti è piaciuto il post?

2 commenti :

  1. Wow Fede, che bel racconto! non avevo idea della presenza della coltivazione del baco da seta in Va di Non

    RispondiElimina
    Risposte
    1. A dire il vero, prima di partecipare a questa conferenza, nemmeno io!

      Elimina

Lascia traccia del tuo passaggio, leggerò con piacere e risponderò appena possibile!

Metti la spunta a 'Inviami notifiche', per essere avvertito via mail dei nuovi commenti.

AVVERTENZA!
Se lasci un commento, devi aver ben presente, che il tuo username sarà visibile e potrà essere clikkato da altri utenti.
Ogni visitatore, quindi, potrà risalire al tuo profilo Blogger

Informativa sulla privacy

Copyright © 2015-2025 ARITMIA CREATIVA - ALL RIGHTS RESERVED