ATTRAVERSARE I MURI. UN'AUTOBIOGRAFIA - MARINA ABRAMOVIĆ

Ho sempre pensato, che gli artisti abbiano qualcosa in più dei comuni mortali e non importa quale tipo di arte essi facciano, se diventino famosi o se la loro arte rimanga relegata in qualche laboratorio scalcinato. Men che meno importa, che vengano capiti o che i loro lavori sembrino le azioni sconclusionate di un pazzo. Per me gli artisti, tutti, indistintamente, hanno un dono.

È un po' come chi incontra la fede e viene chiamato a missioni incomprensibili ai più. Ad un certo punto un'idea, una visione o una necessità diventano l'input per far emergere il loro essere. Non deve esserci per forza un motivo, avviene e basta.

Marina Abramović lo dice chiaro: È successa l'arte.

Non semplicemente il portare avanti un'intuizione (fin da quando avevo sei o sette anni sapevo di voler diventare un'artista) e nemmeno la naturale evoluzione di un hobby giovanile (a quattordici anni chiese al padre i colori per dipingere ad olio) e di un percorso di studi (frequentò l'Accademia di Belle Arti a Belgrado dal 1965 al 1972), l'arte di Marina Abramović dà più l'idea di un'esplosione.

E come non comprenderlo?

L'infanzia dell'artista non fu certo idilliaca. I genitori, entrambi partigiani, vissero una grande storia d'amore durante la seconda guerra mondiale, ma cominciarono a litigare poco dopo la celebrazione del matrimonio e neppure la nascita della bambina, nel 1946, riuscì a riportare la serenità in quella famiglia appena formata.

Il padre, cui peraltro Marina era molto affezionata, comandante ed eroe nazionale, ad un certo punto se ne andò di casa, lasciando la moglie, già maggiore dell'esercito e successivamente direttrice del Museo della Rivoluzione e Arte di Belgrado, donna ossessionata dall'ordine e dalla pulizia.

Questo clima pesante, che costrinse Marina e il fratello a vivere praticamente isolati rispetto ai loro coetanei, fu mitigato dalla presenza della nonna, che però poté fare ben poco contro l'autorità della madre. Avevo ventiquattro anni. Vivevo ancora con mia madre, che pretendeva che fossi in casa alla dieci di sera - scrive Marina.

Come non capire, dunque, la voglia di libertà di una ragazza, che per tutta la sua adolescenza si è sentita goffa ed infelice? Come non comprendere la voglia di riscatto di una Giraffa - così veniva chiamata dai ragazzi - che aveva le gambe magre, le scarpe ortopediche e degli occhiali orrendi

Eppure fu proprio la madre a sostenere, almeno inizialmente, l'interesse di Marina per l'arte. A lei si deve infatti la sua formazione culturale e la sua formazione classica. La posizione di prestigio della madre, inoltre, aprì opportunità non comuni quali la frequentazione di eventi culturali, le visite ai musei, la partecipazione a vernissage e persino i viaggi all'estero (a dodici anni Marina visitò la Biennale di Venezia, dove scoprì l'opera contemporanea di Rauschenberg e Warhol). Marina ebbe poi sempre a disposizione un insegnante di pianoforte, uno di inglese e uno di francese, montagne di libri e persino uno studio dove dipingere.

A Marina, però, tutto questo non bastò mai. L'esigenza di fare qualcosa di differente, di più vicino al suo essere, la portò pian piano ad allontanarsi dalla pittura e a rivolgersi ad altre forme espressive. Un giorno, osservando i jet militari, che lasciavano scie bianche nel cielo ebbe un'illuminazione: perché dipingere? perché limitarmi a due dimensioni, quando potevo fare arte con il fuoco, l'acqua, il corpo umano? Con qualunque cosa! Qualcosa era scattato nella mia mente, mi resi conto che essere artisti significava avere l'immensa libertà di lavorare con qualunque cosa, o con nulla... era un incredibile sensazione di libertà.

Ecco allora trovata la strada!

Determinante fu la frequentazione dello Studenti Kulturni Centar (SKC), istituito da Tito nel 1968, dove conobbe l'arte concettuale americana, l'arte povera italiana e il Fluxus tedesco. La sua insaziabile curiosità, l'interesse verso ogni forma di sperimentazione e il desiderio di oltrepassare ogni limite - tratti distintivi della sua forte personalità - la portarono anche ad interessarsi alle prime performance del gruppo sloveno OHO.

Fu, però, solo dopo il Festival di Edimburgo del 1973, che Marina Abramović comprese di aver trovato il medium. La sua prima performance intitolata Rhythm 10, da lei ideata per l'occasione e ispirata al folle gioco dei contadini russi e jugoslavi, le fece capire di essere riuscita ad ottenere qualcosa che non aveva precedenti, facendo esperienza di una libertà assoluta...ero ubriaca dell'energia soggiogante che avevo ricevuto.

Da quel momento in poi la Performance Art divenne la sua ragione di vita, anche se inizialmente non fu certo possibile vivere di sola arte. All'epoca non mi sfiorò mai l'idea che avrei potuto mantenermi con le mie performance. Semplicemente avevo delle idee e sentivo di doverle realizzare, a qualunque costo. Come ogni artista agli esordi dovette fare molti sacrifici per potersi mantenere e per potersi dedicare liberamente alla sua arte. Fece la postina, lavorò in una catena di montaggio, fece l'insegnante.

Raccontare in poche righe l'incredibile esistenza di Marina Abramović è praticamente impossibile e non è nemmeno lo scopo di questo post, che vuole solo invitare alla lettura di un libro entusiasmante, che ci restituisce, con una prosa semplice e lineare, il ritratto di una donna straordinaria, che oggi è non a torto considerata una delle artisti più importanti e influenti dell'arte contemporanea.

Non è tuttavia necessario essere esperti o appassionati d'arte per leggere un libro del genere - io non sono né l'uno né l'altro - perché il racconto, che alterna esperienze artistiche e momenti di vita, ha molti altri validi motivi per essere apprezzato.



Uno

È un libro sulla creatività

Attraversare i muri ci parla di una persona estremamente creativa, che è sempre riuscita, a volte non senza difficoltà, a trovare soluzioni geniali per esprimere il suo pensiero e dare forma alla sua arte. Nel libro vengono spesso descritte le varie fasi del processo creativo, che sono state necessarie per raggiungere un preciso risultato. Vengono anche raccontati errori, imprevisti, dubbi, che ci fanno capire quanto lavoro c'è dietro una performance artistica.

The House with The Ocean View (2002) - Era un lavoro molto ambizioso. E l'idea di partenza era totalmente diversa. [...] Il mio progetto era portare Pilot Baba a New York in un capannone. [...] Ma Pilot Baba non voleva venire a New York. Non aveva alcun interesse a impressionare il mondo occidentale. [...] Così dovetti pensare a un'altra idea. Ormai avevo fatto diversi ritiri in India e avevo imparato alcune lezioni importanti. Potevo metterle a frutto nella mia arte? Volevo incorporare la mia nuova consapevolezza spirituale nel mio lavoro, e al tempo stesso coinvolgere il pubblico. Progettai tre grandi piattaforme ...



Due

È un libro per chi non ha paura di osare

A volte basta un'intuizione per cambiare la propria vita, la cosa essenziale è non farsi condizionare dal giudizio degli altri, dai se e dai ma, dalle paure e dai dubbi. A volte le occasioni vanno colte al volo, anche se paiono prive di senso. A volte, insomma, l'unica cosa che conta è seguire il cuore.

Binnekant 21, Amsterdam - Un giorno, mentre andavo a prendere un caffè, passai davanti a una catapecchia; inchiodato alla porta c'era un pezzo di legno sul quale erano stati scarabocchiati la scritta IN VENDITA e un numero di telefono. [...] Andai a visitare la casa. A dire il vero erano due: una del Settecento, davanti, e una del Seicento, dietro, unita alla prima da un cortile. Entrambe avevano sei piani e una superficie commerciale di 1.150 metri quadrati. Al momento le due case erano occupate abusivamente da trentacinque eroinomani.  [...] Parlai con i miei amici. "Sei matta", mi dissero, "non hai neanche i soldi. Come pensi di fare?".

L'acquisto della casa e la sua lunghissima trasformazione, così come l'incontro, l'amicizia e la riabilitazione dello spacciatore costituiscono un racconto dentro il racconto e dimostrano in maniera inequivocabile, che realizzare i propri sogni richiede spesso un grande coraggio.

A Marina Abramović il coraggio non è mai mancato. Altrimenti non sarebbe diventata la Grandmother of Performance Art e non avrebbe venduto, molti anni dopo, quella catapecchia a quattro milioni di dollari.

La casa che mi cambiò la vita.



Tre

È un libro per chi ha voglia di mollare tutto

Decidemmo di ribaltare le nostre vite. Non volevamo essere legati a un appartamento e pagare l'affitto. E Amsterdam non ci stava facendo bene. Così, con un po' di soldi della Polaroid e altri del governo olandese, comprammo un furgoncino usato - un vecchio cellulare Citroën della polizia, con le fiancate in lamiera ondulata e il tetto alto - e ci mettemmo in viaggio. Saremmo stati un duo artistico ambulante. Non prendemmo molte cose: un materasso, un fornello, uno schedario, una macchina per scrivere, una scatola per i nostri vestiti. [...] Questa sarebbe stata la nostra vita per i tre anni successivi. [...] È difficile descrivere quanto eravamo felici. Sentivo che eravamo davvero le persone più felici del mondo. Non possedevamo quasi niente, non avevamo un soldo, e andavamo ovunque ci portasse il vento.

Una scelta radicale, un taglio netto al passato e ai problemi, una rottura - ancora una volta - degli schemi e di quanto la società impone. 

Il compagno di Marina scrisse persino un manifesto per la loro nuova vita sulla strada.

ART VITAL
Nessuna dimora stabile. 
Movimento permanente.
Contatto diretto.
Relazione locale.
Autoselezione.
Superare i limiti.
Correre rischi.
Energia mobile.
Nessuna prova.
Nessun finale prestabilito.
Nessuna replica.
Vulnerabilità estesa.
Esposizione al caso.
Reazioni primarie.

Qualsiasi viaggio è un arricchimento, si sa. Marina Abramović di viaggi ne ha fatti tantissimi e in ogni parte del mondo, incontrando persone di ogni tipo e facendo esperienze decisamente non comuni. Questa lunga avventura, però, verrà ricordata come il periodo più felice della sua vita.

Il van fu anche al centro di una celebre performance e, successivamente, venne recuperato per essere esposto in occasione di mostre o retrospettive.



Quattro

È un libro per chi è affascinato dalle grandi storie d'amore

La prima volta, in cui mi interessai veramente di Marina Abramović, fu qualche bell'anno fa, quando vidi per puro caso un video su Youtube. Prima di quel momento avevo solo una vaga idea di chi lei fosse e di cosa si occupasse, un semplice nome fra tanti.

Quel video catturò subito la mia attenzione, e per il risalto che fu dato alla notizia che riportava - trovai il video un po' dappertutto - e per le immagini che lo accompagnavano nei vari articoli. Immagini bellissime, intense e tremendamente espressive di uomini, donne, bambini intenti a fissare una donna elegante seduta di fronte a loro. Quella donna, naturalmente, era Marina Abramović.

La straordinaria performance The Artist Is Present, portata in scena al MOMA di New York nel 2010, fu un evento lunghissimo (14 marzo - 31 maggio), estremamente impegnativo, che richiese una preparazione fisica e mentale pazzesca (Il mio addestramento stile NASA aveva funzionato. Il corpo è una macchina di precisione, e una macchina può essere programmata perché faccia certe cose. Anche se non lo facciamo quasi mai), mobili disegnati apposta, abiti creati su misura.

Le regole erano semplici: ogni persona poteva sedersi davanti a me per tutto il tempo che voleva, breve o lungo che fosse. Ci saremmo guardati negli occhi. Non era permesso né toccarmi né parlarmi.

In quel periodo 850.000 persone si sedettero davanti all'artista, comunicando con lei solo con lo sguardo. I loro visi, le loro reazioni sono stati fotografati e la performance è diventata anche un documentario. Grazie a questo evento Marina Abramović - si legge nella autobiografia - diventò una figura pubblica. La gente cominciò a riconoscermi per strada.

Il momento più significativo, più intenso e anche, diciamolo, il più romantico fu quando davanti a Marina si sedette l'uomo, che aveva condiviso con lei tanti anni di vita e tante esperienze artistiche, quello stesso uomo che aveva scritto Art Vital e che con lei aveva girato mezzo mondo.

Ulay, pseudonimo dell'artista tedesco Frank Uwe Laysiepen, scomparso qualche mese fa, conobbe Marina ad Amsterdam nel 1976. Lei ex studentessa, trasferita nella capitale olandese per lavorare alle sue performance, lui ex ingegnere votato all'arte e fotografo di grande talento. Non potevano essere più diversi, Ulay figlio di un gerarca nazista, Marina figlia di partigiani, ma il loro legame è annoverato fra i più grandi sodalizi artistici della storia dell'arte.

La loro storia d'amore ad un certo punto si esaurì, come spesso succede. Una grande performance, un atto a dir poco epico, pose fine a questo incredibile ed intenso rapporto. Dirsi addio sulla Grande Muraglia Cinese, incontrandosi a metà strada dopo essere partiti dai due estremi, beh, non è cosa comune. Era il 1988.

Da quel momento i due non ebbero più nessun contatto fino all'emozionante incontro del MOMA.



Cinque

È un libro adatto per avvicinarsi alla Performance Art

Quando ho cominciato questo libro il mio unico obiettivo era quello di sapere qualcosa in più di questa donna, più di quanto si potesse leggere su Wikipedia per intenderci. Ero semplicemente curiosa. 

Che cos'è l'arte? Se vediamo l'arte come qualcosa di isolato, di sacro e di separato da tutto, significa che non è vita. Mentre l'arte deve essere parte della vita, deve essere di tutti. Così scrive Marina nella sua autobiografia.

Il libro mescola sapientemente arte e vita, la correlazione è strettissima, è evidente. Meno evidente, però, è quanto sta dietro a questo concetto, soprattutto se si parla di arte contemporanea.

Noi comuni mortali, diciamolo, di arte contemporanea ci capiamo poco. Capiamo poco anche dell'arte di altri periodi in verità, soprattutto se non siamo addetti al settore o amanti del genere, ma qualcosa di solito riusciamo sempre ad intuire. L'arte contemporanea è complicata, non è immediata, a volte diventa ostica, disturbante. Ci spiazza e ci mette in difficoltà.

Attraversare i muri, con un linguaggio diretto, scevro di tecnicismi e tranquillamente alla portata di tutti, ci rende facile capire il punto di vista dell'artista. Tutto pare logico, qualsiasi elemento delle opere descritte perfettamente sensato. Le soluzioni trovate appaiono geniali, perché geniali lo sono davvero. 

Leggere questo libro, insomma, apre gli orizzonti e avvicina, anche senza volerlo, all'arte contemporanea. 

A me queste pagine hanno regalato numerosi spunti di riflessione e hanno dato l'input per varie ricerche in rete. Ammetto di essermi appassionata e ho passato parecchie serate davanti al pc, cercando di saperne di più. Ho letto articoli, guardato video, sfogliato gallery di fotografie. 

Ho persino selezionato le mie performance preferite, quelle che, davvero, hanno smosso qualcosa dentro. Alcune me le sono gustate per intero, altre solo in parte (per oggettive difficoltà a reperire i materiali). 

  • Breathing in / Breathing out (1977), perché è proprio vero! 
  • The Lovers - The Great Wall Walk (1988), perché è stata un'impresa titanica
  • Balkan Baroque (1997), perché è davvero angosciante
  • At the Waterfall (2003), perché è molto zen
  • The Kitchen, Homage to Saint Teresa (2009), per la serenità che infonde
  • The Artist Is Present (2010), per le emozioni che regala
  • 7 Deaths of Maria Callas (2020), per la sua solennità

Per un motivo o per l'altro le ho amate tutte! 

Così come ho amato questo libro, fra i migliori di questo mio 2020.



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2 commenti :

  1. Ok mi hai convinta: appena posso mi metto a leggere questo libro!

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