SEI ARTISTI PER L’AMBIENTE. LA PRIMA MOSTRA LIQUIDA DI ‘WE ARE THE FLOOD’

 
In un momento storico come questo, in cui si fa ancora troppo poco per salvaguardare il nostro pianeta e in cui le chiacchiere spesso e tristemente sono molto più numerose dei fatti, ogni iniziativa volta a sensibilizzare sul cambiamento climatico, sugli effetti devastanti dell'azione dell'uomo sulla nostra povera Terra, sull'importanza della transizione ecologica non può che essere ammirevole, per non dire indispensabile.

Se poi il messaggio è veicolato dall'arte, che da sempre ha svolto un ruolo attivo nel risvegliare le coscienze e nel suscitare dibattiti su temi spesso scomodi, la funzione educativa risulta probabilmente molto più efficace, perché alleggerita di tutti quegli aspetti prettamente scientifici, che risultano coinvolgenti solo per gli addetti ai lavori.

Si potrebbe obiettare, naturalmente, che pure l'arte non sia per tutti, specie quella contemporanea a volte incomprensibile ai più, ma è altrettanto indubbio che immagini, video e suoni riescono ad essere più accattivanti e più interessanti di tante ordinate serie di numeri o di poco poetiche tabelle di dati. Ecco allora che l'arte, sfruttando il suo linguaggio universale, diventa il collegamento perfetto con la scienza e con il mondo reale, con i quali si integra e dei quali ci regala una visione diversa, ma non meno affascinante.

Su queste basi e con l'intenzione precisa di incoraggiare un nuovo atteggiamento nei confronti della natura è nato We are the flood, un articolatissimo progetto del Muse di Trento, che ha lo scopo di indagare su questioni ormai fondamentali (e non più rimandabili) nella vita dell'uomo, tematiche urgenti e sempre più complesse, che necessitano di una nuova consapevolezza, di uno sforzo condiviso, di una prospettiva comune.

Il progetto, ideato e curato da Stefano Cagol - artista contemporaneo particolarmente attento a questi problemi del nostro tempo -, consiste in una serie di proposte molto eterogenee, che andranno a coinvolgere nei prossimi mesi non solo artisti, ma anche ricercatori, istituzioni, territori e naturalmente gente comune. Una rete di persone che, in modo diverso e a vari livelli, lavorerà per dare forma a una co-scienza, dove quel prefisso significa con, insieme.

La condivisione, insomma, diventa il mezzo più potente per raggiungere lo scopo. Dobbiamo imparare a vivere diversamente, a vivere meglio, affrontando insieme problemi giganteschi, che - piaccia o non piaccia - sono di tutti. Non ha il minimo senso ignorare, rimandare, evitare, perché il tempo è poco e noi ci stiamo giocando la sopravvivenza sulla Terra.

We are the flood è anzitutto una piattaforma di ricerca, che si autodefinisce interdisciplinare e creativa. Interdisciplinare in quanto punto di incontro tra arte e scienza; creativa - e questo solletica molto la mia curiosità - perché è evidente che solo con la creatività, con le nuove idee, con dinamiche sempre diverse si possono trovare soluzioni, proporre cambiamenti e fare la differenza. Le sfide di oggi sono molto impegnative e, soprattutto, sono in continua evoluzione, per questo motivo è indispensabile avere una mente aperta, flessibile, pronta ad invertire la rotta, se necessario.

Le attività proposte nell'ambito di We are the flood saranno spalmate su un periodo abbastanza lungo, ad ondate quindi, e la scelta certamente si rivelerà vincente, perché in questo modo sarà possibile a tutti gustarle, partecipare attivamente, metabolizzare i contenuti e soprattutto maturare quella co-scienza, di cui parlavamo prima.

I materiali presentati o prodotti durante il progetto verranno raccolti in un ricco archivio, disponibile online, che comprenderà articoli, suggerimenti bibliografici, ma anche collegamenti a blog, a simposi e a mostre. Un'ulteriore possibilità di conoscenza e di approfondimento.

Masterclass, residenza artistica, call for artists completeranno la ricca offerta assieme ad alcune mostre liquide che probabilmente saranno le più coinvolgenti per il pubblico di non esperti.

Ed è proprio della prima mostra liquida, visitata qualche tempo fa, che vi voglio parlare.

Colpisce, prima ancora delle opere esposte, il concetto di fluidità insito nel titolo - che proprio titolo non è - della mostra stessa, un concetto che riflette poi le caratteristiche della piattaforma e rimanda all'idea, suggestiva e  al tempo stesso inquietante, di eventi catastrofici e tragici, di cui noi stessi molto spesso siamo gli unici responsabili.

We are the flood - Noi siamo il diluvio - stabilisce colpe precise, non lascia margine al dubbio e non permette appello. Oggi, come nel passato, l'uomo si è sempre posto di fronte all'ambiente naturale con un atteggiamento arrogante e con la convinzione di poter fare qualsiasi cosa senza conseguenze. Solo che, inevitabilmente, le conseguenze sono sempre arrivate, a partire da quel diluvio universale citato nella Bibbia, non certo un evento casuale, ma una punizione precisa, cercata, giusta.

Quello del diluvio universale è un tema ricorrente in molte culture del mondo e molte sono le religioni che ne sostengono la veridicità. Non solo Noè, dunque, ma anche Ziusudra/Uta-Napishtim – il suo omologo sumero-accadico – oppure Sisidro/Xisutro – quello babilonese. Ma l’ira degli dei contro un’umanità irriconoscente si trova anche nel Libro dei Morti egiziano, nella mitologia greca, in molti testi antichi cinesi, nei miti malesi, nei manoscritti aztechi, nei racconti dei Maya e in quelli degli Inca. E del diluvio universale parlano anche gli indiani Hopi, gli Aborigeni australiani, i Maori della Nuova Zelanda e i Mapuche cileni, solo per fare qualche altro esempio.

La diffusione così capillare di questo mito in popoli molto lontani sia sul piano geografico sia su quello temporale induce a pensare, che possa esistere un fondamento di verità e che un’antica catastrofe di proporzioni enormi si sia realmente verificata ed abbia portato ad un nuovo inizio.

Ecco allora che il concetto di diluvio va oltre l’idea di inondazione e di acque violente, che sommergono tutto. Diluvio è un evento radicale, che porta sì ad una nuova rinascita, ma prevede prima – ahimè – una distruzione totale. Che poi questa sia effettivamente causata dall’acqua, dal fuoco, dal vento, dalle malattie o dalla crisi climatica ha poca importanza, perché il risultato, in definitiva, rimane il medesimo.

Che si voglia credere o meno a miti e religioni, rimane il fatto che il cambiamento, rapido e preoccupante, è sotto gli occhi di tutti e nostro dovere è – sarebbe – quello di fare il possibile per arginarlo. Eppure, in generale, la tendenza al negazionismo risulta essere abbastanza diffusa.

I motivi sono molteplici, primo fra tutti la distanza – sia spaziale sia temporale – che noi percepiamo fra i nostri comportamenti e le loro conseguenze negative. In secondo luogo l’idea che il nostro agire costituisca, in fondo, solo una goccia nel mare, in qualche modo ci giustifica nel reiterare modi di vivere sbagliati e nel ritenere il cambio di rotta un qualcosa di competenza altrui, soprattutto dei governi e delle istituzioni. Infine molti interessi economici e l’opportunismo politico ostacolano, spesso in maniera pesante, il conseguimento di quella rivoluzione, che risolverebbe, se non del tutto almeno in gran parte, questi gravi problemi.

Per tutte queste ragioni iniziative come We are the flood, vanno non solo appoggiate, ma raccontate e condivise.

Entriamo, dunque, nel vivo di questa mostra, che più propriamente è uno spazio immersivo, dove è possibile rivivere, attraverso filmati e fotografie, alcune esperienze di arte contemporanea, che in modalità differenti sono state concepite per sensibilizzare e coinvolgere lo spettatore nelle tematiche sopraccitate.

L’ambiente molto piccolo risulta, fin da subito, avvolgente. Immerso nella penombra esalta i colori vivaci dei video proiettati e favorisce il miscuglio dei suoni, che, quasi sovrapponendosi, diventano martellanti.

Scompaiono un po’ – a mio modesto modo di vedere – le immagini estrapolate da due performance, che non sono qui riproposte nella loro interezza. Ed è un vero peccato, credetemi, perché andandole a cercare nel web, si scoprono essere meravigliose. I motivi di questa scelta non mi sono noti, ma vi posso dire che, comunque, le fotografie sono state uno stimolo sufficiente per andare a curiosare in giro per la rete e questa lacuna non costituisce certo un valido motivo, per non andare a vivere questa esperienza.

Il primo video ci porta direttamente dentro il Gran Teatre del Liceu di Barcellona, dove nel 2020 andò in scena un concerto molto particolare, perché ad assistere all’esecuzione di Crisantemi, elegia per quartetto d’archi di Giacomo Puccini, furono 2.292 piante. Sì, avete letto bene, piante verdi, ordinatamente ed elegantemente schierate in ogni posto numerato del teatro.

L’artista spagnolo Eugenio Ampudia raccontò di avere concepito il suo Concierto para el Bioceno come un atto simbolico, per riequilibrare le esigenze della nostra società e quelle dell’ambiente.

Nel momento preciso in cui il pubblico è stato privato della possibilità di essere un pubblico, la natura ha ripreso i suoi spazi, dimostrando quanto ognuno di noi in fondo sa, cioè che i protagonisti non siamo noi, anche se noi umani fatichiamo ad ammetterlo. In questo senso l’utilizzo del termine Bioceno (= Biocene) non appare casuale, contrapposto all’Antropocene sembra evocare un’età nuova in cui i ruoli cambiano e la vita (=  bíos) finalmente diventa il centro di tutto.

Al termine dello spettacolo tutte le piante sono state regalate ad altrettanti infermieri ed operatori sanitari spagnoli impegnati in prima linea nella lotta contro il Covid.

Rilassante.

L’artista turca Nezaket Ekici, che può essere degnamente considerata l’erede di Marina Abramović, con cui si è formata, è la protagonista del secondo video, Methexis (= partecipazione) (2012). 

Girato nel Mar Morto è l’esempio perfetto di un’installazione vivente, che mette alla prova il corpo e la resistenza della performer, che rimane immobile con il viso immerso nell’acqua, senza guardare e senza respirare, galleggiando nel mare più salato del mondo.

Quello che apparentemente può sembrare un momento di relax in uno specchio di acqua turchina, proprio per il contesto e le inquadrature sugli enormi cristalli di sali, si trasforma nella rappresentazione di un ambiente ostile, dove la vita è impossibile. 

Cambia anche il rapporto con l’acqua, sempre meno tale e sempre più sale, che non è più fonte di vita, ma veicolo di morte. Quei cristalli, quasi creature aliene in un film di fantascienza, paiono in attesa di sferrare il colpo fatale su quel corpo galleggiante quasi esanime.

Anche i palloncini ad esso attaccati hanno un significato preciso: trattenendo la donna a galla, lasciano intendere la possibilità di una vita oltre la morte.

Complessivamente l’opera d’arte trasmette un’idea di instabilità e di incertezza e apre una finestra su un mondo futuro, in cui lo spazio per l’uomo è davvero appeso ad un filo.

Efficace.

Pattern of Dissolution è l’opera del 2017 di Elena Lavellés presente in We are the flood.

Da sempre interessata ai meccanismi del capitalismo e alle dinamiche legate all’estrazione delle materie prime, questa artista visuale, filmmaker e geologa madrilena mira a mostrare come entrambi abbiano cambiato il nostro modo di rapportarci alla Terra. 

Nel lunghissimo video tre elementi (petrolio, carbone e oro) – simboli della società contemporanea e causa dello sfruttamento del territorio e di conflitti sanguinosi – si mischiano in una massa informe, creando forme astratte di grande suggestione, accompagnate da un suono inquietante in sottofondo appositamente creato per questo lavoro.

L’artista osserva questo movimento da un punto di vista molto ravvicinato e questo non fa che esaltare i colori di questo flusso denso, che avanza tanto lentamente quanto inesorabilmente, rendendolo piacevole alla vista, quasi ammaliante, ma non per questo meno pericoloso.

Ipnotico.

Il fuoco di Shahar Marcus ci porta in Israele e ci invita, in modo crudo e diretto, ad una riflessione sul fenomeno tristemente noto del riscaldamento globale.

Still Burning (2010) presenta una figura umana ibrida seduta ad un tavolo. Le gambe sono nude, mentre il busto, le braccia e la testa sono ricoperte da un materiale informe, che la rende molto simile ad un golem. Come è noto questa figura antropomorfa è un retaggio della cultura ebraica e indica una massa ancora priva di forma. Il golem è un gigante di argilla, dotato di una forza disumana, ma privo di capacità intellettive e di anima.

La figura è immobile, in attesa. E quando le fiamme la circondano, continua a rimanere ferma. Nessun movimento, nessuna reazione, nessun tentativo di liberarsi. Anche nel momento più drammatico rimane incapace di agire.

L’idea di base che anche noi, oggi, rimaniamo inermi di fronte ad un pericolo annunciato è evidente.

Sconcertante.

Nezaket Ekici e Shahar Marcus sono protagonisti, assieme ad altri artisti, anche della performance del 2012 intitolata Sand Clock, di cui è presente in mostra una grande fotografia tratta dal video. Un lavoro a più mani, che ha lo scopo di indagare il rapporto con il tempo che scorre.

Trasformati in clessidre umane, le gambe divaricate e le braccia sollevate, se ne stanno immobili nel mezzo delle grandi distese di sabbia del deserto del Negev, in Israele. Dalla sfera trasparente sollevata sopra la loro testa scende, in un flusso continuo, altra sabbia, che rappresenta il tempo a nostra disposizione sulla Terra. Esaurita la sabbia all’uomo-clessidra non resta che uscire di scena.

L’unico modo per comprendere appieno il valore del tempo, condiviso tra noi e l’ambiente, tra il presente e il passato (e naturalmente il futuro), è fondersi con esso. Ecco allora che la sabbia non è solo attorno all’uomo-clessidra, ma anche dentro di esso.

Poetico.

Staging Silence (3) (2019) dell’artista belga Hans Op de Beeck porta in scena, in maniera magistrale, l’influenza dell’uomo sull’ambiente che lo circonda.

L’immagine tratta da questo video, anche questo non visibile nella mostra, mostra un paesaggio marino, apparentemente incontaminato, che prende forma grazie all’azione di due gigantesche mani. Sono proprio queste mani a plasmare il paesaggio, a dare forma non solo alle isole, che vengono collocate sulla superficie dell’acqua, ma anche al resto dell’arcipelago.

Ciò che stride è l’apparente perfezione di questo luogo e l’intervento umano, che trasforma a suo uso e consumo tutto quanto lo circonda.

Il nostro mondo, dunque, è solo un’illusione creata da noi stessi?

Potente.

Si discostano da tutti quelli descritti finora i due lavori dell’australiano Philip Samartzis, Brash Ice e Icebergs, ambedue del 2010, in quanto opere sonore.

Ascrivibili al campo dell’ecoacustica e registrate nell’Antartide Orientale, ci portano a diretto contatto con un ambiente per noi lontanissimo, estremo, ostile, facendoci sentire il rumore del ghiaccio in movimento.

Nella prima registrazione ascoltiamo lo scontro fra masse di ghiaccio non molto grandi (al massimo un paio di metri di diametro); nella seconda il rumore degli iceberg.

Ambedue le registrazioni fanno parte della serie Floe, che dimostra quanto sia multiforme il suono del ghiaccio e quanto sia sbagliata la nostra percezione di quel continente, che viene visto come qualcosa di statico e sempre uguale a se stesso. Invece ogni tipo di ghiaccio ha un suono incredibilmente diverso: le calotte di ghiaccio, i ghiacciai, gli iceberg (grandi o piccoli), il ghiaccio marino, i laghi ghiacciati, le banchise tutti hanno una voce propria e raccontano storie molto diverse.

Il lavoro di Philip Samartzis, che si può definire un artista del suono, vuole sottolineare l’importanza dell’acqua negli ecosistemi e la pericolosa situazione generata dallo scioglimento dei ghiacci.

Evocativo.

In conclusione, per darvi un’idea più precisa di quanto ho visto e per invogliarvi a visitare la mostra, vi invito a guardare questo breve video, che riassume in pochi minuti il senso di questa prima mostra liquida.

Avvertenza:

We are the flood - Mostra Liquida #1
Palazzo delle Albere
Trento
9 aprile - 29 maggio 2022



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