DI NUMERI, DI DRAGHI E DI RINASCITA

Il cartello, in legno grezzo e decorato in modo molto semplice, quasi scompariva in mezzo alle piante. Difficile notarlo, soprattutto procedendo a passo spedito verso la meta, il motivo per il quale tutti erano lì.

Persino sulla strada del ritorno, quando la curiosità era stata saziata e di motivi per correre già non ce ne erano più, non era facile individuarlo. Forse, volutamente, era stato posizionato in quel punto, quasi un regalo per soli occhi attenti e sguardi meno superficiali.

Qualche passo indietro, la sensazione netta di aver perso qualcosa di importante, il fascino delle parole, la suggestione dei numeri, la magia di un mondo da scoprire e la certezza che solo il tempo può sanare le ferite, anche quelle profonde.

L’antica profezia cimbra, ricordata anche da Mario Rigoni Stern nel racconto Una visita all’alba, recupera il valore mitico del numero sette, un numero speciale nelle culture arcaiche di tutto il mondo.

Il numero sette esprime la globalità, l’universalità, il tutto e non è un caso che sia il numero della creazione. Per il suo legame con il ciclo lunare era considerato magico e perfetto.

Essendo la somma del tre (triade, energia creativa, spirituale, divino) e del quattro (tetrade, idee realizzate, materiale, umano) è il numero della piramide, formata da un triangolo e da un quadrato. Per questa sua duplice natura il numero sette si colloca a metà fra due mondi e, in un certo senso, rappresenta la volontà umana di accostarsi al divino.

Simbolo per eccellenza della ricerca mistica, rappresenta ogni forma di scoperta e di conoscenza. Non è un caso, quindi, che nel Medioevo le sette arti liberali costituissero i due gradi della formazione scolastica: il trivio di tipo letterario e il quadrivio di tipo scientifico.

Il sette riveste un ruolo molto importante in varie credenze, è presente nelle più svariate tradizioni, in molti detti popolari ed è citato in parecchi testi letterari, religiosi e non. Oggi, anche se non ci facciamo caso, compare in molti aspetti della nostra vita.

Sette sono le note musicali e i giorni della settimana, così come i pianeti dell’astrologia antica, i colori dell’arcobaleno, i metalli della trasmutazione alchemica e le meraviglie del mondo.

Sette sono i chakra, i re di Roma, le età dell’uomo, le stelle dell’Orsa Minore e Maggiore, i mari dell’antichità, i bracci del candelabro ebraico, i vizi capitali e gli Dei della felicità del Buddhismo e dello Shintoismo.

Nei Tarocchi è intoccabile, nel Libro dell’Apocalisse protagonista, nella tradizione ippocratica della medicina governa le malattie del corpo.

Ma poi sette sono le vacche grasse e quella magre, sette le virtù, sette i doni dello Spirito Santo, sette i Sacramenti cattolici, gli Arcangeli e i libri della Bibbia, ma anche le divinità mitologiche della Cabala ebraica, i cieli creati da Dio nel Corano (così come i mari, le terre, gli abissi), i giri attorno alla Kaaba e le sfere planetarie attraverso le quali l’anima si eleva nel culto di Mitra.

Un elenco lunghissimo, che non può tralasciare il settebello nel gioco della scopa, gli anni di sfortuna dopo la rottura di uno specchio, le camicie sudate, il settimo cielo, i nani di Biancaneve e persino le vite dei gatti. Ma non erano nove? Da noi sì, in Iran, no.

Sette dunque. 

Per i Cimbri, minoranza etnica e linguistica di origine germanica stanziata da più di mille anni tra l’Adige e il Brenta, sulla montagna trentina, vicentina e veronese, il sette indicava la durata perenne della vita, la sua continuità, nonostante le inevitabili trasformazioni causate spesso da eventi catastrofici.

L’antica profezia, tanto poetica quanto rassicurante, ci ricorda da secoli i continui cambiamenti del territorio e ci invita a guardare oltre il presente, oltre il disastro, per concentrarsi sul domani, che sarà di sicuro diverso, ma non necessariamente peggiore.

Noi uomini, piccoli esseri senza significato, che viviamo un tempo brevissimo su questa terra, non possiamo che prendere atto della continua evoluzione della Natura, che da sempre alterna momenti di prosperità, violente catastrofi, momenti di rinascita in un ciclo continuo inarrestabile.

L’idea di un tempo ciclico risulta in questo senso quasi consolatoria, perché, prima o poi, la fase della rigenerazione arriva sempre. Si può anzi dire che la catastrofe, che riporterà tutto ad uno stato originario, a volte sia quasi indispensabile.

Certo chi ha vissuto i drammatici momenti di Vaia, nonostante l’affetto per quei lontani progenitori e pur riconoscendo a questa perla di saggezza un indubbio fondo di verità, oggi, a distanza di neppure quattro anni, forse non è esattamente convinto della necessità di un simile disastro.

Quella che viene ricordata come Tempesta Vaia - tecnicamente, un vero e proprio uragano (il che si traduce in un doppio salto in avanti sulla scala di Beaufort) - colpì dal 26 al 30 ottobre 2018 il Triveneto, radendo al suolo quarantadue milioni di alberi. 

Ettari di bosco sfregiati da piogge incessanti e venti fortissimi, interi territori colpiti pesantemente nella loro identità e nella loro economia.

I segni di questo scempio sono visibili ovunque e ci vorranno anni, per non dire secoli, per rivedere le foreste, per ritrovare i punti di riferimento, per archiviare nell’armadio della memoria questo immane disastro ambientale.

Eppure quel momento arriverà e anche la Tempesta Vaia diventerà un ricordo sbiadito dal tempo e presente solo nei racconti dei più anziani, nei libri di scuola o nelle cronache di qualche vecchio quotidiano, perché la Natura, da sempre e per fortuna, ha la capacità di riprendere il suo cammino, mutando nei secoli e regalando nuovi panorami.

Ed è proprio dalle ceneri di quella devastazione, che sull’Alpe Cimbra – altopiano di media montagna nel Trentino sud orientale, dove molto pesanti sono state le conseguenze della tempesta – è nato quello che oggi viene già considerato il simbolo della rinascita: il Drago Alato di Vaia.

Collocato appena sopra la piccola e caratteristica frazione di Magré, pare affacciarsi dalle ultime propagini del Tablat, il soprastante pianoro di pascoli.

Di questa impressionante opera d’arte sappiamo ormai praticamente tutto, perché tanto è stato detto, scritto e mostrato.

Costruito interamente con legname recuperato dai boschi distrutti dalla tempesta è alto sei metri, lungo sette e pesa circa una tonnellata; ha richiesto circa un mese e mezzo di lavoro, duemila pezzi di radici e scarti del bosco, tremila viti; visto che il legno non è stato trattato, ma solo assemblato, il drago – in perfetta sintonia con la filosofia della land art - è soggetto all’usura e fra qualche anno scomparirà completamente, tornando a fondersi con il territorio, dal quale ha preso vita.

Al di là dei numeri, che certamente sono impressionanti, ciò che non si può raccontare, ma si può solo percepire al suo cospetto, è l’aura che circonda il Drago alato, che pare uscito direttamente da un romanzo fantasy.

Non è solo il fatto che sia la riproduzione di un animale fantastico, che colpisce la nostra immaginazione; non è nemmeno il fatto che restituisca le suggestioni dell’antica leggenda cimbra del basilisco, quel mostro sputafuoco ricoperto di squame verdi, che si nascondeva nelle grotte della zona e che terrorizzava i bambini; non è nemmeno il fatto che rappresenti, in fondo, il monito preciso a rispettare quella Natura, con la quale le genti del luogo hanno costruito, nei millenni, un rapporto stretto e indissolubile.

Il fatto è che il Drago Alato di Vaia pare vivo. 

Ogni pezzo di legno, ogni singolo incastro, ogni sfumatura della corteccia contribuiscono a rendere l’opera d’arte credibile. 

Le zampe ben piantate nel terreno, 

non annullano l’impressione netta che la Creatura sia in procinto di darsi la spinta necessaria per prendere il volo, la muscolatura tesa, scattante, possente eppur leggera.

Le curve armoniche dei singoli pezzi di legno, accostati con perizia, esaltano il movimento di un vento immaginario, che pare scivolare sul corpo robusto, quasi accarezzandolo,

partendo dalla testa,

passando per le ali,

arrivando fino alla coda, che si staglia appena abbozzata contro il cielo.

E poi lo sguardo acuto, pericoloso, ipnotizzante, così come deve essere quello di ogni vero drago. Quante leggende raccontano di malcapitati uccisi all’istante per aver, anche involontariamente, incrociato gli occhi penetranti di un mostro simile?

Per non parlare delle narici, ben delineate, che sembrano pronte a sputare scintille di fuoco da un momento all’altro.

Infine quella leggera torsione del collo, l’impressione precisa che la testa, appena girata su un lato, sia pronta a scattare nella direzione opposta, quasi le servisse uno slancio maggiore, per liberare quella scia di fuoco, arma micidiale per stabilire la sua supremazia.

L’aspetto feroce del drago, al di là delle apparenze, non lo rende per forza un nemico. Come afferma il suo creatore -  Marco Martello – il drago è soprattutto messaggero della forza dirompente della Natura e della necessità che tutti noi torniamo a farne parte

Di etnia cimbra, sottolinea spesso, nelle molte interviste rilasciate in questi anni, il forte legame delle sue genti con i monti, i boschi, la Natura in generale. Legame secolare, che si mantiene in un equilibrio molto precario, che va salvaguardato a tutti i costi. I problemi sorgono quando decidiamo di spezzare il vincolo, in una presunzione funesta.  

La Tempesta Vaia è stato un evento estremo, eccezionale, non prevedibile, che ha segnato profondamente tutte le comunità colpite. Un evento che certamente deve far riflettere tutti, perché evidenzia il nostro essere nulla rispetto ad una Natura potente, che può tutto e che non lascia scampo. 

La Natura, casualmente o quando serve, riprende quanto le è stato sottratto, ripristina lo status quo originario, ristabilisce le priorità. 

Di noi alla Natura non importa nulla o, meglio, non importa nulla, se noi non la rispettiamo, se non manteniamo le giuste distanze, se prevarichiamo. 

La Natura non è ingenerosa, come si potrebbe pensare, la Natura è giusta. 

Semplicemente.

La rinascita oggi passa anche attraverso le opere di questo bravissimo artista, che nella devastazione ha voluto trovare un senso, un’opportunità, un modo diverso di fare arte. Ci sono opere che nascono togliendo qualcosa al materiale che si usa, nel mio caso il legno che viene scolpito, e poi ci sono opere che prevedono di mettere insieme, unire i materiali.

Per creare il Drago Alato, ma anche le altre opere nate dalle macerie di Vaia, Martalar – cognome cimbro dell’artista e suo nome d’arte – ha camminato in mezzo al bosco, ha raccolto, ha scelto, ha assemblato. Ha voluto, si potrebbe quasi dire, curare le ferite del territorio, restituendo dignità a materiali ormai inutili, a scarti, a frammenti. In essi ha visto potenzialità ancora inespresse, confermando così l’amore per un materiale meraviglioso, che la Natura quasi ci regala, spesso  senza chiedere niente.

Grazie al Drago Alato Martalar è stato catapultato dal suo laboratorio artistico di Mezzaselva e da una notorietà di nicchia ad una popolarità inaspettata, tanto che le sue opere sono ormai meritatamente richieste in realtà culturali di alto livello. 

Il Drago, invece, diventato ormai prima attrazione turistica in Trentino, ha creato suo malgrado un via vai di persone decisamente impegnativo per gli abitanti della zona, tanto che il Comune di Lavarone è stato costretto a regolamentare il traffico e a creare un servizio di navette, inizialmente non previsto.

Purtroppo, in varie occasioni, Carabinieri e Polizia locale hanno dovuto anche arginare le velleità di quei turisti poco rispettosi, convinti di poter arrivare al cospetto della Creatura direttamente in macchina.

Il solito rovescio della medaglia, che negli ultimi anni ha caratterizzato molte località turistiche trentine, con le inevitabili polemiche, l’usuale mancanza di buon senso e la prevedibile presunzione di chi la montagna proprio non è capace di rispettarla.

Ci sono andata anch’io a vedere il Drago, per carità, percorrendo un comodo sentiero in mezzo al bosco in una giornata primaverile piuttosto bruttarella e non ho trovato una gran folla. Certo per i miei livelli di sopportazione, che nei luoghi montani sono pari a zero, anche quelle dieci/quindici persone incontrate lungo il percorso erano già troppe, perché tra schiamazzi e caccia al selfie la sensazione che del Drago avessero capito poco è stata abbastanza netta.

Martalar è bravissimo, la sua opera spettacolare, ma la rinascita vera – a mio modesto modo di vedere – ci sarà quando il Drago sarà tornato polvere, i chioschi saranno spariti, la Birra del Drago probabilmente sarà passata di moda, i boschi torneranno a rimanere silenziosi e un altro ciclo si sarà chiuso.

Proprio come predetto dall’antico popolo cimbro.



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4 commenti :

  1. Un'opera incredibile ... veramente stupendo ... il significato... l'opera incredibile ed ora che non c'è più è uno sgomento , speriamo che l'autore riesca a riprodurlo ma il significato iniziale non sarà il medesimo ... brutale la stupidità dell'uomo! Grazie Fede per questo incanto rimane un bel ricordo

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    1. Una grandissima perdita, anche perché è stato distrutto un simbolo. Per fortuna sono riuscita a vederlo.

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